Tuesday, November 23, 2004

È stato un weekend un po' frenetico, ma mi accorgo solo adesso di quanto l'avessi desiderato. La casa a Roma è sempre più polverosa e ingombrata da mille pacchi e buste e valigie. Chiara ci mette il suo posizionando sul pavimento, in ordine sparso, tutti i giocattoli o pseudo-giocattoli che riesce a trovare, nel giro di dieci secondi. E quel cazzo di TV sempre accesa con i Teletubbies. La prima parola di mia figlia ieri mattina, appena sveglia: "Teletubbies". Stiamo praticamente facendo di tutto per farla diventare un'ameba decerebrata degna spettatrice televisiva. Per farmi forza mi dico che fin dalla più tenera età tratta libri e carta stampata con molto rispetto, non ha (quasi) mai strappato un pezzo di carta e sfoglia tomi con levità, grazia e indiscutibile interesse.

Sabato mattina partenza in macchina. Grazie alla mia lungimirante deficienza quattro fermate estemporanee per figlia vomitante la qualsiasi. Bestemmie atipiche per far sì che la bambina non ripeta o comunque, se ripeterà, la cosa susciti ilarità e non scandalo. Meno male che avevo tre cambi nello zaino.

Arriviamo a casa con Mark in fibrillazione, ma lo capisco: è sempre stato così quando deve incontrare suo fratello, e mi dispiace non poterlo accompagnare anche se in fondo in fondo mi lascio scappare un sospiro di sollievo, perché quattro adulti (di cui tre oltre gli 80 chili) + bambina in una Y10 che sta per entrare nell'undicesimo anno di vita mi sembrano francamente troppi. Resto in casa a cercare di mettere a posto, cazzeggiando e ingollando antistaminici nella vana speranza di frenare l'immane risposta anticorpale del mio organismo.

Quando usciamo per andare al ristorante, il freddo è pungente e un po' umido, ma sono ben coperta e mi fa un baffo. Non abbiamo il motorino, ma un ballonzolante autobus nella migliore tradizione romana: apparentemente privo di sospensioni e guidato a singhiozzi dall'autista.

Cerco con la testa di rituffarmi indietro, nella mia storia con Mark: gli indico con la testa l'orribile ristorante argentino dove mangiammo la seconda o forse terza volta che mi trovavo a Roma, il mio sguardo passa sulle stradine che ci racchiudevano mentre le attraversavamo, mano nella mano. Io sentivo il rumore dei miei stivali. C'era lo stesso freddo, o anche di più. Quelle sensazioni mi sfuggono. Rimane solo il rimpianto di non provarle più.

Ma l'incontro con Simon e Mark T mi fa bene, e in quella full immersion di inglese mi ritrovo, e la serata passa in fretta, riesco anche a conversare amabilmente, malgrado le mie orecchie ricevano più confusione che sillabe comprensibili. Io e Mark non ci scambiamo neanche le vivande - comunque abbiamo scelto lo stesso primo - e non so quante volte il suo sguardo si sia posato su di me. Io non ricordo di averlo guardato come lo guardavo quattro anni fa. A casa di Christopher, poco prima di sposarci, riuscivo a sentire la presenza fisica dell'attrazione fra di noi, e sicuramente la sentivano tutti gli altri. Che tristezza, che tristezza. Solo adesso ci penso e mi sento male.

Che fine sta facendo il mio matrimonio, anzi, la mia vita insieme a Mark?

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